Quale uscita dalla crisi?

di Salvatore Ricciardi – 27 ottobre 2011

La “crisi” da un altro punto di vista.

Partiamo dagli slogan. Se è vero che gli slogan nella loro sintesi rappresentano il sentore, la consapevolezza e il percorso politico di un movimento.

“la crisi non l’abbiamo provocata noi”… “la crisi non la paghiamo”…

Mentre la seconda affermazione ha un senso ed esprime una volontà di lotta, la prima è profondamente sbagliata.

“La crisi non l’abbiamo provocata noi”:

ha un significato “difensivo”, “lamentoso” ed anche “giustizialista”, quasi a voler utilizzare la logica del codice penale (non l’ho commesso io, non ho colpa, non vado punito per qualcosa che non ho fatto…) , ma soprattutto è un’affermazione non vera! Questa crisi capitalistica è si il portato di contraddizioni interne al modello di accumulazione capitalistica messo però in crisi da un’offensiva della classe operaia nei decenni Sessanta e Settanta. Quindi l’abbiamo provocata noi! E ne siamo orgogliosi!!!

Se per noi intendiamo la classe operaia, il proletariato (ma anche la “piccolissima borghesia” che possiamo definire “proletarizzata”, per intenderci: il piccolo commercio e artigianato, le piccole cooperative, le partite Iva, ecc…).

“Acuire la crisi” è un “compito storico” della classe lavoratrice, è il suo “dovere” fondamentale. La crisi capitalistica non è necessariamente un problema, può essere parte della soluzione, dal versante proletario. Può essere l’inizio della soluzione dei problemi dello sfruttamento e dell’oppressione; se però la classe lavoratrice inasprisce la crisi e non aiuta certo a risolverla; altrimenti diventa “collaborazionista” con il capitale.

La classe lavoratrice deve impedire che si “superi” la crisi, che si “esca” dalla crisi con una “ripresa economica” (che vuol dire “ripresa dei profitti del capitale”, instaurazione di un nuovo modello di sfruttamento che sottometterà e disciplinerà per un altro lungo ciclo la classe lavoratrice). La classe deve impedire che si stabilizzi il meccanismo di accumulazione imposto dal capitale in ogni sua fase di sviluppo.

Questo compito la classe lavoratrice dell’Europa e degli Usa l’ha svolto egregiamente nei decenni Sessanta e Settanta. Le lotte per migliorare la condizione di lavoro, per l’aumento del salario diretto (salari monetari) e indiretto (servizi gratuiti e stato sociale); per la diminuzione dei ritmi di lavoro, per la riduzione della giornata lavorativa, per la tutela della salute, l’autoriduzione delle bollette, ecc., ecc. Tutto questo movimento di lotta ha portato in alto il salario complessivo (diretto e indiretto) a fronte di un non-aumento dei profitti (minori rispetto alle aspettative del capitale investito). Quella fase di lotta di classe ha provocato un avanzamento delle classi subalterne rispetto al potere della classe capitalistica. E quindi quel modello di accumulazione basato su una forte intensificazione del lavoro e sullo sviluppo dei consumi di massa è dunque entrato in crisi.

La lotta di classe è così: se una classe avanza l’altra retrocede.

E’ ovvio che i capitalisti si sono posti il problema di fermare l’offensiva operaia, rigettarla indietro e rilanciare un modello di accumulazione (di sfruttamento) in grado di produrre alti profitti. E questo hanno fatto! Con l’aiuto fondamentale di ciascuno Stato e del sistema dei partiti ovunque. Con quale strumento?… quello classico….ossia con l’aumento della disoccupazione di massa attraverso una forte recessione. È così che sul finire degli anni Settanta (autunno 1979) la Federal Reserve (alla cui presidenza c’era Paul Adolph Volker, nominato dal democratico Carter e confermato dal reazionario Reagan) aumentò di 4 punti il tasso d’interesse. Accedere al credito a questi tassi da usura per molti imprenditori era impossibile; quindi: chiusura di fabbriche o diminuzione della produzione. L’economia mondiale venne spinta in una grande Recessione.

Recessione che provocò enorme aumento della disoccupazione nei paesi industrialmente forti e la distruzione di intere economie nei paesi industrialmente più fragili. Portò alla creazione di quella massa di senza reddito che Marx chiama “esercito industriale di riserva”.

Migrazioni massicce, gente disposta a lavorare a salari bassissimi. La diminuzione del rapporto di forza operaia sulle condizioni di lavoro permise ai padroni di rilanciare l’intensificazione del lavoro e dello sfruttamento sui luoghi di lavoro che l’offensiva operaia degli anni Sessanta e Settanta aveva rallentato fino a invertirne il segno. [breve nota: per Marx l’intensificazione del lavoro, ossia l’aumento della produttività operaia cioè dello sfruttamento, è una necessità crescente per il capitale]. Questa controffensiva capitalistica, tesa alla smantellamento della forza operaia, la conosciamo bene: precarizzazione del lavoro, flessibilità, riduzione del salario indiretto (servizi), smantellamento del welfare. Privatizzazioni dei servizi pubblici, spacchettamento delle imprese, spostamento di intere produzioni nelle periferie del mondo, liberalizzazione del movimento di capitali, ecc.

A questo si aggiunse anche il prolungamento della giornata lavorativa.

Questa controffensiva capitalistica va sotto il nome di “neoliberismo” o “globalizzazione”.

Insomma con la Recessione il capitale internazionale cerca di ottenere:

diminuzione del costo del lavoro;

aumento dell’intensificazione del lavoro cioè aumento dello sfruttamento;

–quindi aumento dei profitti.

Gli effetti collaterali di queste manovre portano allo sviluppo della finanza che si impossessa delle imprese produttive i cui investimenti venivano abbandonati dal capitale industriale. Il capitale finanziario acquista potere e ricchezza e “libertà” di costruire tutti i castelli speculativi, fino ad arrivare all’esplosione della bolla, allo sfascio di oggi.

Ogni cosa ha la sua fine. Anche questa controffensiva capitalistica, questo nuovo modello di accumulazione e di sfruttamento: il neoliberismo è giunto al traguardo, travolto dalle contraddizioni che il modello liberista portava con se. E oggi quella che viene chiamata “crisi”, non è altro che il tentativo del capitale di adeguare i fattori della produzione (forza lavoro, capitale, credito, finanza, moneta, ecc.) e gli assetti politici ad un nuovo modello di accumulazione, a un nuovo meccanismo di sfruttamento, che tenga conto delle contraddizioni manifestate. E noi, tutte quelle e tutti quelli che vivono di lavoro subalterno, in questa crisi che compito abbiamo? Intanto quello di ribadire la primogenitura dell’offensiva operaia di aver messo in crisi il modello precedente che ha accumulato i problemi e le contraddizioni poi esplose. Una verità storica che dobbiamo riaffermare con orgoglio e anche per sottolineare la nostra alterità, il nostro antagonismo totale ad ogni modello di accumulazione capitalistico. E da lì ripartire.

La classe lavoratrice è capace di praticare il conflitto per acuire la crisi capitalistica e per sgretolare un modello di sfruttamento, e l’ha dimostrato. Oggi deve riprendere questo suo cammino e questo compito storico: acuire questa crisi! Non certo aiutare i padroni a risolverla, tanto meno infilarsi in inguacchi nazional-patriottici per salvare la sovranità nazionale e gli Stati, sia che mantengano la moneta europea, sia che ritornino a quella nazionale, ed altri miserabili compromessi.

Acuire la crisi, riprendendo una offensiva sul salario complessivo (salario monetario e servizi) e sulle condizioni di lavoro (diminuzione dei ritmi, forme di sabotaggio e boicottaggio); difesa dei territori fino ad una appropriazione degli stessi da parte della popolazione autorganizzata per sottrarli alla speculazione e allo sfruttamento da parte del capitale.

Riprendere l’offensiva di classe nel momento in cui la crisi accentua la debolezza e le contraddizioni interne alla classe dei capitalisti.

Un’offensiva che deve trovare necessariamente uno stretto collegamento internazionale tra le lotte che sia in grado di coordinarle per indirizzarle contro tutti i tentativi, più o meno mascherati, di “uscita dalla crisi”.

Un elemento, spesso sottaciuto o dimenticato da molti analisti ed economisti, che però ha inciso profondamente sulla diminuzione del valore della forza lavoro e quindi del suo costo per i capitalisti, è stata la diminuzione del costo della riproduzione della forza lavoro. Ossia tutti quei servizi e prodotti necessari alla “riproduzione” della forza lavoro. Mi riferisco alla diminuzione del costo dei servizi di cura attualmente prestati, anche alle famiglie proletarie, dal lavoro migrante (badanti, ecc.); alla diminuzione del costo dei prodotti industriali consumati dai proletari che vengono prodotti in Cina e India ed esportati in Europa e Usa; e non ultimo – in termini di importanza– la utilizzazione del lavoro femminile di cura, ripreso alla grande, a causa della massiccia disoccupazione femminile, ributtata nel “focolare domestico”. *

SALVATORE RICCIARDI (Roma, 1940) dopo gli studi tecnici e il lavoro in un cantiere edile è assunto in qualità di tecnico delle ferrovie dello Stato. Svolge attività sindacale nella Cgil e politica nel Partito socialista di unità proletaria. Partecipa ai movimenti del ’68 studentesco e del ’69 operaio. Negli anni successivi è tra i protagonisti dell’autorganizzazione nella realtà di fabbrica e dei ferrovieri. Dopo aver militato nell’area dell’autonomia operaia nel 1977 entra a far parte delle Brigate Rosse. Viene arrestato nel 1980. Alla fine di quell’anno con altri prigionieri organizza la rivolta nel carcere speciale di Trani. Condannato all’ergastolo, alla fine degli anni ’90 usufruisce della semilibertà. Dopo trent’anni di detenzione, da pochi mesi ha riacquistato la libertà. Lavora presso una libreria, è attivo nel movimento ed è redattore di Radio Onda Rossa, a Roma. (dal risvolto di copertina del libro)

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